papilla

s. f. (anat.) qualsiasi prominenza più o meno elevata.
sec. XIV [DELIN e GRADIT sec. XV]
- Nicolò DE' ROSSI, Rime, sec. XIV primi decenni (tosc.-ven.): "Floruça, si m'apristi le papille / di gy [o]chi toy per cuy vivo e moro, / no me sereber cari nì tesoro / respeto lo spyendor de le sentille / ch'escono de le toy dolçe pupille..."
- Ciampolo di Meo degli Ugurgieri, Eneide volgarizzata, av. 1340 (sen.): "Queste parole disse, e trasse del troncascio adorato la veloce saetta, e con ira tese l'arco, e lungamente il trasse infino che quasi si congiungessero intra se i capi curvati, e già toccasse colle mani uguali co la sinistra la punta del ferro, per la destra e col nervo la papilla".
Nel componimento di de' Rossi il termine, con il significato ipotetico di "palpebre", costituisce un uso isolato, probabilmente per la rima ricca con pupille e la quasi aequivocatio corrispondente (o per evitare la rima identica); cfr. tuttavia palpelli in Accurso di Cremona, 1321/37 (mess.). Nel volgarizzamento di Ciampolo di Meo degli Ugurgieri, esso indica il "capezzolo".
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Scheda di redazione - TLIO - 23/12/2019